A porte chiuse – Meritarsi la tragedia
BORGO SAN LORENZO – Sembra irrisorio o addirittura sgarbato parlare di tragedie, auspicando perfino di meritarsele, in una situazione di emergenza quale quella che stiamo vivendo in questi giorni. Vi è tuttavia un nesso comune tra quanto afferma Roland Barthes nel suo testo Sul teatro e l’idea di sentimento comunitario di responsabilità e impegno reciproco che quest’oggi ci viene chiesto di attuare in quanto cittadine e cittadini. Lo si ritrova nel bisogno di sentirsi parte di un pubblico unanime, capace di commuoversi e essere trasportato dalla bellezza che vediamo espressa nello stile tragico.
È la tragedia e dunque il teatro, dice Barthes, a dare dignità alla vita; un popolo però deve meritarsi la tragedia attraverso il raggiungimento di un certo livello di cultura, intesa come competenza, stile e non come sapere nozionistico. Altrimenti, non è la tragedia a coinvolgere le masse, ma il dramma, in cui si ritrova la “possibilità di un’esplosione di egoismo” , ovvero l’impietosirsi per ogni minimo fallimento personale, che trova specchio nello spettacolo rappresentato. La tragedia non è questo, ma un genere aristocratico, che ha come suo presupposto la conoscenza dell’universo e dell’interiorità umana: non si vuole compatire l’uomo, ma spogliarlo di ogni sua sofferenza, la quale deve essere ricondotta ai fondamenti dell’essere umano, con una sorta di allusione perfetta che può trovare espressione solo nell’arte. La tragedia è il rispecchiarsi di un’essenza pura: non vi è curiosità per la trama, si intuisce da subito come andrà a finire, ma lo spettatore si appassiona all’opera dall’inizio e in questo sta il miracolo della tragedia, la quale ci fa capire che la nostra anima non è attratta dal finale delle cose, ma dalla loro motivazione, dalla natura del loro essere. Ed è qui che ci viene rivelata l’intimità dell’uomo, che si esprime nel pensiero e nel potere di conoscere. Di fronte a questo desiderio costante di sapere, l’essere umano avverte la propria impotenza e soffre terribilmente. Il mondo è intriso di questo dolore e la tragedia si fa portavoce ed indagatrice di questa sofferenza, denudandola, riducendola al nocciolo e alla sua forma più pura. È solo attraverso la comprensione di questa pena, “di cui siamo carnalmente e spiritualmente plasmati” che ritroviamo l’essenza dell’uomo. Accettando questa forma di strazio, arriveremo a dominare la sofferenza, che man mano si trasforma in un sentimento positivo, che Barthes si azzarda a chiamare “gioia”. Solo abbracciando il dolore, vediamo affiorare la gioia, solo con la comprensione della miseria possiamo accogliere la ricchezza.
Dunque, affinché si possa accogliere questa forma artistica della verità, dobbiamo ritrovare l’unione fra la vita e l’arte. La tragedia va meritata, dice Barthes, come tutto ciò che è grande. Ogni epoca dovrebbe arrivare a meritarsela, ma questo comporta il triste sacrificio di non negare quello che ci dà noia, di assumere su di noi il vero con tutta la difficoltà che esso implica. Possiamo quindi ritrovare in questo pensiero anche un’idea del perché le tragedie antiche ci appaiono tuttora così moderne: la tragedia è espressione dell’universo umano in toto e, in fin dei conti, non c’è niente di tanto universale quanto il dolore e il sentimento di impotenza che anche quest’oggi affligge l’individuo.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 10 marzo 2020