A PORTE CHIUSE – Laura Nardi “La poesia in uno sguardo”
BORGO SAN LORENZO – Voce appassionata, risposte date in un battito di ciglia, così si presenta Laura Nardi, creatura dell’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico. È un’attrice poliedrica, che lavora in Italia e in Portogallo, dove tiene anche seminari presso l’Escola da Ponte, senza farsi mancare l’attivismo sociale: è membro, infatti, dell’Associazione Amleta e partecipa a spettacoli che mirano a lottare contro le disuguaglianze.
Fra i suoi tanti lavori, è stata la madre del piccolo Luca nel film breve “Camille”, storia di un gatto che non muore mai, neppure dopo che abbiano tentato di ucciderlo e che ritorna dopo che, supponiamo, vengono massacrati la mamma e il bambino. Il ritorno dell’animale può essere un segno del fatto che l’amore della madre non muore mai, idea che spesso sembra trapelare anche dalle espressioni del suo volto? Io penso che non ci sia una risposta unica quando si parla di interpretazioni, poiché qualunque cosa il film susciti nello spettatore o nella spettatrice è importante. Credo che il regista abbia proprio voluto dare il là per riflettere, ragion per cui ognuno può trarne gli spunti che crede, al di là delle intenzioni iniziali che stanno alla base del film e che, se devo essere sincera, non ricordo neanche più. So però che l’Arte ha il compito di stimolare, di tirar fuori qualcosa e di arrivare a tutti, ecco perché ogni pensiero in merito è lecito.
Ha recitato anche in “Nanà”, tratto dal romanzo di Zola. La protagonista sembra ricercare sempre il principio del piacere, che, però, è spesso portatore di dolore. Si può definirla un’opera dei contrari, poiché ogni concetto è sempre vicino al suo opposto: dolore – piacere, debolezza – forza, morte – vita? Certo, proprio perché è uno specchio della vita: è essa stessa una serie di contrari che si susseguono, se ci pensiamo, la nostra esistenza è basata sulle dualità. Pensiamo alle nostre emozioni: non esiste un colore unico per definirle. Anche le azioni che facciamo dipendono da una serie di pensieri fra loro concatenati, il che rende evidente che non ci sia un’unica ragione dietro l’agire umano. Un’azione malvagia spesso lascia intendere un background che, in molti casi, la rende comprensibile o, quantomeno, fa capire che non si può classificare il mondo in comportamenti giusti o sbagliati. Il teatro dovrebbe proprio trasmettere questo messaggio: a me piace, infatti, interpretare personaggi non positivi, perché voglio scavare al loro interno e capire le motivazioni che stanno alla base delle loro scelte. L’attore, dal canto suo, quando affronta un personaggio complesso, deve stare attento a non fornire un’unica versione di colui che interpreta, altrimenti rischia di essere didascalico.
Invece, concentrandosi sulla contemporaneità, uno dei suoi ultimi impegni è stato il film “Tre piani” di Nanni Moretti. Non ancora uscito, la critica lo ha definito un film introspettivo, in quanto i tre piani richiamano le dimensioni della soggettività freudiana: l’Io, l’Es e il Super Io. Nei film di Moretti c’è spesso un richiamo all’interiorità, anche se sembra essere tradito dal carattere cinico di alcuni personaggi. È così anche in questo film? Questo non lo saprei dire, perché non ho ancora visto il film. È stata un’esperienza bellissima avere una parte in “Tre piani”. Quando sono andata la prima volta sul set, ero emozionata e anche impaurita: si sente dire spesso che Nanni Moretti è un regista intransigente e incontentabile. In realtà, tutte le leggende che circolano su di lui non corrispondono al vero. Il suo essere preciso deriva dal suo voler stare attento a tutti noi: mi sono sentita importante mentre vedevo che voleva curare la mia interpretazione in ogni minimo dettaglio, anche se non era una parte da protagonista. Quando sono uscita dal set, mi sono sentita una donna diversa rispetto a quella che era entrata dalla stessa porta alcune ore prima: ero cresciuta in un giorno.
Un personaggio storico che ricorre nella sua carriera è Galileo Galilei, sia poiché ha recitato in uno spettacolo sullo scienziato toscano sia perché è stata la figlia Virginia nel film “Galileo’s daughter”. Il loro rapporto è stato a momenti difficile ma sempre piuttosto stretto, tanto che il severo uomo di scienza scriverà ad un amico quanto era stato per lui complesso riprendersi dal dolore causato dalla perdita della figlia. Sembra una crepa nel temperamento di un uomo forte ma è anche la traccia di umanità che vince sul suo essere rigido. Qual è stata la forza di Virginia e come l’ha resa nel film? Virginia è un personaggio che ho amato molto. Quel film aveva un taglio documentaristico, ciononostante mi sono sentita molto vicina alla figlia di Galileo. Tutte le volte che mi assegnano un personaggio, penso al ruolo che mi hanno dato come spunto per un arricchimento personale. In questo caso, mi sono documentata su Virginia, ho letto alcuni suoi scritti, che rendono l’idea del rapporto con il padre. Era la figlia illegittima di Galileo, che non si era mai spostato e quindi decise di rinchiudere le figlie in un convento. Quello che oggi è disumano, a quel tempo era di costume, i pensieri delle ragazze erano totalmente irrilevanti. Infatti, mentre Virginia accetterà la monacazione, la sorella ne soffrirà tantissimo. I carteggi fra Virginia e Galileo furono bruciati dalle suore dopo la denuncia di Galilei al Sant’Uffizio. Penso che sia doveroso raccontare la sua vita, poiché rischia di finire tra i tanti dimenticati della Storia, mentre, fra le ingiustizie che hanno accompagnato la vita di Galileo, bisogna ricordare anche quella che lui ha esercitato nei confronti delle figlie. La conoscenza di queste vicende è stata molto importante per il mio lavoro, infatti il tema del femminile è ricorrente nei miei spettacoli.
L’abbiamo vista impegnata anche in “Amore per sempre” (In love and war), basato sulla storia d’amore fra Ernest Hemingway e l’infermiera Agnes von Kurowsky. A proposito di Hemingway, la sua scrittura sembra partire dalla coscienza dei fatti per poi criticare gli aspetti che non approva, ma solo dopo aver reso i lettori consapevoli della mostruosità del reale. Oggi ci sarebbe bisogno di opere d’arte che esprimano il disappunto verso alcuni aspetti della realtà dopo però che il fruitore abbia maturato il suo spirito critico? Non saprei: credo che oggi serva un’Arte che non sia ristretta da regole imposte. La cultura non deve essere di tipo elitario, di appartenenza esclusiva di persone che provengono da contesti di benessere. Bisogna trovare un modo perché questa arrivi a tutti. Penso che risponderei a questa domanda con altre due domande. La prima è “come facciamo a portare cultura?”. E la seconda “Come può il teatro creare un nuovo pubblico?”. Penso che questo sia il lavoro che si deve fare e che noi attori dovremmo, in primo luogo, rispondere a questi interrogativi.
In televisione, si è cimentata sulla serie di Ivan Cotroneo “Una mamma imperfetta”, che, tra le risate e le critiche, lascia intendere quanto impegno ci sia dietro le azioni quotidiane, che hanno anche un loro lato poetico. Guido Gozzano diceva infatti “I paradisi perduti son fatti di banalità ritrovate nella gente sbagliata”. Lei cosa pensa di questo? A me piace ritrovare l’epicità anche nei momenti semplici. Cotroneo ha scritto dei bellissimi dialoghi per questa serie e penso che il suo intento sia stato proprio di far capire che la poesia non si trova solo nei contesti alti. Giorgio Caproni dice che è poesia anche l’insegnante che va a scuola in bicicletta e che percorre ogni mattina le stesse strade con occhi diversi. È lo sguardo che noi diamo al gesto che rende poetico il gesto stesso. Sono stata molto felice di recitare in questa serie, proprio perché affronta anche il tema del lavoro di cura, sempre a carico delle donne. Con leggerezza, la serie “Una mamma imperfetta” critica il fatto che uomini e donne non abbiano gli stessi diritti. Oggi, il divario sta aumentando proprio grazie al fenomeno del glass ceiling, per cui ci sono poche donne in ruoli di rappresentanza e di management. Io faccio parte dell’associazione “Amleta”, che lotta contro le molestie e le discriminazioni di genere nel mondo dello spettacolo, settore dove permane il “soffitto di cristallo”, per cui poche donne possono avere ruoli che siano al vertice della piramide.
A proposito di contesti di campagna, tanto amati da Gozzano, visto che noi siamo del Mugello, quale spettacolo porterebbe qua da noi? Porterei sicuramente “Il mestiere più antico del mondo”, uno spettacolo sulla violenza ostetrica, si basa sulla famosa frase secondo la quale “La donna in sala parto viene trattata come in società”. Dal 2016 lo porto in ogni parte di Italia, in qualsiasi spazio non convenzionale, poiché molti teatri sono ancora restii ad accogliere queste opere. E sono proprio molte donne a chiedermi di portare questo spettacolo nei propri territori.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 2 luglio 2021