A PORTE CHIUSE – Lucia Poli: “Servono verità e ironia”
BORGO SAN LORENZO – L’attrice toscana Lucia Poli, sorella del celebre Paolo Poli, impegnata da anni nel mondo dello spettacolo: in teatro con svariate opere, in televisione e al cinema con lavori come “Le affinità elettive”; “I tre moschettieri”, “Gostanza da Libbiano” e molti altri, si confronta con le nostre domande, offrendoci un quadro completo di una vita dedicata all’arte e all’istruzione. Venuta molte volte in Mugello, anche recentemente con lo spettacolo “Animalesse” al Teatro Giotto di Vicchio, esprime in questa intervista il legame forte che ha con i suoi personaggi, sebbene non ceda nell’identificarsi in essi con un atteggiamento di completa adesione.
Lei ha fatto moltissime opere di spessore, fra le quali spicca anche il film “Gostanza da Libbiano”, diretto da Paolo Benvenuti, la storia di una donna processata per stregoneria. Il personaggio da lei interpretato vive un forte tormento derivato dal sentirsi esclusa dalla società, ciononostante afferma con forza la sua passione per la vita e per la natura di cui è un’esperta conoscitrice. Il coraggio di Gostanza, vista come eterna Medea, può essere un esempio per i giovani, che spesso cercano modelli da seguire? “Gostanza da Libbiano” è un’esperienza fondamentale che ha segnato tutto il mio percorso. Un personaggio che ho molto amato, il più drammatico che abbia mai interpretato. Tutto nasce da un fatto storico: il processo per stregoneria intentato a una guaritrice nel 1595 a San Miniato al Tedesco. Un notaio zelante annotò ogni parola dell’accusa e tutte le risposte di Gostanza ai suoi inquisitori. Le parole della donna sono bellissime, dure, coraggiose, a momenti liriche. Combatte i suoi autorevoli persecutori con la sola arma della parola, che si fa pungente, minacciosa, e lei, da vittima, a volte diventa la “strega” che vogliono che sia. Cede solo per solidarietà femminile, quando vengono arrestate le sue giovani collaboratrici, e ritratta tutto. Il merito va Paolo Benvenuti per aver tratto un testo dalla ricerca storica di un gruppo di studenti dell’Università di Pisa e per averne fatto un film di notevole intensità. Personalmente lo ringrazio di avermi scelta per dare vita alla sua protagonista. Come tutti i personaggi che hanno in sé forza e verità, Gostanza può essere presa come esempio per chi è alla ricerca di valori.
Al Teatro Giotto di Vicchio ha portato “Animalesse”, in cui, attraverso il racconto della vita delle femmine degli animali, traspare ancora una volta la figura della donna che si aggrappa alla vita. I filosofi Horkeimer e Adorno trovano nel voler addomesticare la donna uno dei tratti tipici del Novecento. Lei cosa pensa di questo? Lo spettacolo che lei ricorda è un recital che ha girato molto in tutta Italia: si tratta di storie di animali, scritte da vari autori che ho sperimentato nel corso degli anni, a cominciare dall’amato Palazzeschi. Ho dedicato molti spettacoli agli animali: da “Cane a gatto” negli anni ’80 con mio fratello Paolo, a “Bestiacce e bestioline” negli anni ’90 realizzato insieme a due attori-musicisti. Forse perché mi piace la metafora che l’animale rappresenta: un’umanità minore, in subordine, vezzeggiata o disprezzata. Le femmine degli animali, che giocosamente ho chiamato “Animalesse”, raccontano la loro condizione di disagio o di ribellione: mi è sembrato un modo per continuare a parlare di donne in una forma più originale. Quanto al fatto che gli uomini tentino di addomesticare le donne, è verissimo, e non mi sembra un fenomeno circoscritto al Novecento, ma sempre presente nella Storia.
Lei è anche insegnante e ha recitato in spettacoli come “Corpo insegnante” o “Il Libro Cuore e altre storie”, che trattano il tema della didattica in un particolare periodo storico. I ragazzi ora sono costretti, per la maggior parte, a una didattica a distanza. Cosa pensa di questa situazione? La didattica a distanza oggi è una necessità, il che la rende una risorsa. Tuttavia credo che l’insegnamento abbia bisogno della presenza per essere davvero efficace. Ho avuto la fortuna di insegnare al Liceo Artistico di Firenze in anni di contestazione, era la fine degli anni ’60 del Novecento, un periodo fervido di inquietudini, di bisogno di cambiamento e di nuove proposte. Le ragazze venivano a scuola vestite con camicioni fatti con la fodera dei materassi, i ragazzi avevano i capelli sulle spalle. La voglia di libertà si gridava nelle aule e per le strade. Il rapporto con i miei studenti era determinante per l’andamento delle lezioni. Mi resi conto, grazie a quell’esperienza, che stare in cattedra era simile a stare sul palcoscenico, poiché i gesti e le espressioni pesavano tanto quanto le parole. E infatti di lì a poco passai direttamente al mondo dello spettacolo.
In altre interviste, ha parlato del rapporto con suo fratello Paolo, che all’inizio era un esempio “folgorante” che non le permetteva di esprimere al meglio le sue notevoli qualità. Poi però avete iniziato a lavorare insieme ed è stato un lavoro fruttuoso. Cosa ha favorito il passaggio a questa collaborazione? Il rapporto con mio fratello Paolo è stato determinante. Fin dalla nascita lui aveva avuto potere su di me, perché i genitori gli avevano permesso che scegliesse il mio nome. Poi, via via che crescevo, si divertiva a tagliarmi i capelli, a farmi ritratti all’acquerello, a raccontarmi i film o le commedie che vedeva, a portarmi alle prove dei suoi primi spettacoli. Per me era il fratello grande, spiritoso, imprevedibile, magico: era già famoso quando mi affacciavo ai vent’anni. Per questo all’inizio pensai di intraprendere un’altra strada, poi, una volta a Roma, scivolai nelle cantine dell’avanguardia e, dopo qualche piccola esperienza, accettai di lavorare con lui e di affrontare con coraggio e umiltà il difficile confronto. È stata una grande avventura recitare con lui: abbiamo fatto quattro spettacoli insieme e negli ultimi due, “Paradosso” e “Cane e gatto”, eravamo soli in scena, circondati da pupazzi e bambole di ogni tipo. Sono entrata per un po’ nel suo mondo rocambolesco, abbiamo saldato un’amicizia che non è mai venuta meno negli anni, ma ho imparato anche pian piano a maturare una mia personalità indipendente, come era necessario che fosse.
Ha anche recitato in una commedia sulle sorelle Brontë, famose, oltre che per l’enorme valore dei loro testi, anche per il modo di approcciarsi al lavoro, poiché vivevano quell’attività a tutto tondo, talvolta identificandosi completamente con il personaggio. Lei ha avuto esperienze simili, in cui si è sentita quasi un unicum con la persona che doveva interpretare? “Le sorelle Brontë” è un testo che abbiamo scritto Valeria Moretti ed io, traendo spunto non solo dalla letteratura delle tre scrittrici, ma anche dalla loro vita singolare. Cresciute in una canonica, sorvegliate da un padre pastore autoritario e ubriacone, educate da una zia bigotta, scrivono di nascosto, inviano i loro romanzi a un editore di Londra con uno pseudonimo maschile e vengono pubblicate in incognito. L’ho trovata una storia ghiotta ed emblematica. Ho deciso di farne un piccolo musical con tre giovani attrici-cantanti e altri comprimari, ma non ho recitato in quel lavoro, mi sono limitata alla regia e alla drammaturgia. Per quanto riguarda l’identificazione con i personaggi che ho interpretato, in generale il mio atteggiamento non è di cieca adesione, ma cerco di unire la verità dei sentimenti con il distacco ironico della forma.
Questo periodo di pausa dal teatro le ha dato l’ispirazione per nuovi progetti? Durante tutto il mese di ottobre ho provato uno spettacolo al Teatro Quirino di Roma: “Servo di scena” con la regia di Guglielmo Ferro, prodotto da Geppy Gleijeses che interpreta il ruolo del protagonista insieme a Maurizio Micheli. Il progetto è quello di portarlo in tournée a febbraio-marzo prossimi. Spero proprio che sia possibile. Vorrei anche portare in giro, in primavera, un piccolo lavoro su Savinio costruito insieme al pianista Marco Scolastra. Come vede sono ottimista e fiduciosa. Per il resto, in questo momento mi sto occupando del mio nipotino di sei anni, che richiede la stessa creatività del teatro.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 13 dicembre 2020