A PORTE CHIUSE – Enrico Lo Verso “Ho condotto una battaglia solitaria contro alcuni registi”
BORGO SAN LORENZO – Come avviene la preparazione di uno spettacolo? A cosa dobbiamo stare più attenti, al contesto o al copione? Ne parliamo con Enrico Lo Verso, attore teatrale, di cinema e televisione. Fra le sue molte interpretazioni ricordiamo Marius ne “I Miserabili”, a fianco di Gérard Depardieu, oppure Giosuè nel Mosè di Robert Young, o il protagonista in “Così ridevano” di Gianni Amelio. Ultimamente è stato impegnato in docufilm come “Michelangelo – Infinito” o in fiction quali “Boris Giuliano. Un poliziotto a Palermo” e “Maltese. Il romanzo del commissario”. In ambito teatrale, ha girato l’Italia con “Uno, nessuno e centomila”, che si augura di portare in Mugello appena si ricomincerà a recitare.
Lei ha interpretato alcuni ruoli appartenenti ad opere classiche, ad esempio I Miserabili o La Bibbia. Il defunto Alessandro Pansa diceva che questi libri hanno un grosso valore, per cui non ci si dovrebbe limitare ad una loro contemplazione in maniera disinteressata poiché sono utili anche per i mestieri tecnici. Lei cosa pensa di questo? Secondo me quando si lavora su testi classici bisogna sempre fare un lavoro di contestualizzazione. Si deve pensare al periodo storico in cui sono stati scritti e adattarli all’oggi: se necessario, dobbiamo anche modificare il linguaggio per renderlo più comprensibile. Io ho sempre voluto codificare questi scritti, il che mi ha portato a condurre una battaglia solitaria contro alcuni registi. Con uno ho perfino litigato perché voleva rimanere fedele ad una determinata traduzione, in cui però erano sbagliati i congiuntivi. Volevano obbligarmi a ripetere esattamente quelle battute, allora ho pensato “è più giusto restare fedeli a un traduttore o alla Grammatica italiana?”. Il cinema aiuta in questo, poiché spesso si lavora con autori viventi e quindi c’è possibilità di discutere con loro. Un testo, infatti, nasce dalla collaborazione con gli attori che rendono vive le parole dello scrittore. Quando ho portato in scena “Uno, nessuno e centomila”, non volevano che lo modificassi, ma era un romanzo, e non un copione: quindi, per renderlo un monologo scorrevole, andava adattato. Qualche tempo fa ho ritrovato un articolo di giornale dove erano riportate alcune righe in cui si diceva che il testo doveva essere contestualizzato al periodo, al pubblico e filtrato secondo la sensibilità degli attori e del regista, altrimenti tanto valeva comprare il libro originale. Questo scritto portava la firma di Luigi Pirandello. L’ho considerata una vittoria.
Quindi qual è il valore principale di queste opere? Penso che non vada dimenticata la loro origine: nascono per produrre piacere. Ora vengono presentate come i capisaldi della cultura, ma questa concezione allontana. La parola “cultura” ha una durezza che la rende più scostante della quarta parete. Non dobbiamo dimenticare che opere come le Commedie di Aristofane, l’Iliade, l’Odissea sono nate per far divertire. Se lavoriamo ancora su cosa può far piacere al pubblico, allora produrremo cultura. Pensiamo ai film di Sergio Leone: erano nati come intrattenimento e poi sono diventati Storia del Cinema.
Un film in cui lei partecipa come protagonista è “Così ridevano”, che parla della discriminazione dei meridionali al Nord. L’idea di un Paese diviso deve essere analizzata oggi in questo clima incerto? Sì, certamente, film come questo ci danno grandi lezioni. “Così ridevano”, diretto da Gianni Amelio, è una storia del singolo che però si fa Storia con la S maiuscola. Nello stesso anno ho recitato in “Del perduto amore” di Michele Placido, anch’esso molto attento all’ambito storico. Prendendo parte a questi lavori, ho imparato che il contesto in cui avvengono le scene deve essere esaminato con attenzione; è preferibile studiare il periodo storico del film che si va ad interpretare piuttosto che fossilizzarsi al testo.
Perché serve questa attenzione al background? Io sono fermamente convinto che l’uomo, seppur abitato dagli stessi impulsi che da sempre i filosofi tentano di spiegare, debba fare i conti con il momento che sta vivendo, con i cambiamenti che il suo tempo lo porta a sperimentare. Bisogna immedesimarsi nell’era vissuta dal personaggio. Così diventa anche più facile memorizzare la parte, poiché siamo già entrati nel meccanismo della storia.
Quale dei suoi spettacoli porterebbe da noi nel Mugello, dunque in una realtà diversa dall’ambiente cittadino? Porterei “Uno, nessuno e Centomila”, in cui sono stato diretto da Alessandra Pizzi, che ha curato anche l’adattamento del testo. Lo spettacolo ha avuto successo in moltissimi luoghi. Al termine di una replica, uno spettatore mi ha detto “Non ero mai stato a teatro e non pensavo che fosse così bello”. In fin dei conti il teatro è un gioco antichissimo: basta tracciare una riga per terra, non importa un palco classico, va benissimo anche un campo e mettere gli spettatori da una parte, l’attore dall’altra e il più è fatto. Quando facevo quel monologo, immaginavo un nonno anziano che dava indicazioni ai più giovani e inesperti, che, così, intraprendevano un percorso verso la serenità.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 20 dicembre 2020
Soltanto le porte sono chiuse, il Vostro e il nostro che cuore sono aperti, anzi spalancati verso uno spazio, che si fa infinito.