A PORTE CHIUSE – Maddalena Crippa “L’uomo è relazione”
BORGO SAN LORENZO – Un nuovo ragionamento sulla chiusura delle porte dei teatri. Una tutela della salute, ma quale salute va salvaguardata? Ne parliamo con la nota attrice Maddalena Crippa, che ha recitato molto in teatro con opere di ogni genere ma anche su grande e piccolo schermo con registi come Francesco Rosi, Tonino Cervi, Enzo Monteleone e molti altri. Oltre a condividere riflessioni sui suoi lavori teatrali, fra i quali spicca anche “E pensare che c’era prima il pensiero” che ha portato al Teatro Corsini di Barberino, la Crippa invita a meditare sulle serie difficoltà e sugli aspetti quasi positivi della situazione attuale.
La sua carriera è veramente notevole. Uno dei suoi spettacoli è “Italia, mia Italia” che ha presentato dicendo di voler fare qualcosa per il suo Paese, ovvero far ritrovare un’idea positiva dell’essere italiani. Ci sarebbe bisogno anche oggi di un’operazione del genere? Penso che oggi servirebbe ancora di più, poiché la situazione è disperante. Teatri, musei e biblioteche sono chiusi, stiamo assistendo ad un blocco della cultura. È un momento pericoloso, perché sembra ormai assodato che si possa vivere solo di ciò che viene classificato come economicamente produttivo, ma non è così. Bisognerebbe chiederci quale tipo di salute dobbiamo tutelare. Ovviamente devono essere prese tutte le precauzioni, infatti questi luoghi si erano subito attrezzati per fare in modo che non si arrivasse a questa chiusura. Ma i tentativi sono stati vani.
Un altro suo impegno è “I demoni”, tratto dall’opera di Dostoevskij, il quale sosteneva che l’uomo può liberarsi dal male e quindi perdersi per sempre. Come avete fatto a tramandare questa concezione dell’autore nel vostro spettacolo? Il messaggio era molto complesso, ma siamo riusciti a renderlo perché è stato fatto un grande lavoro da parte del regista, il maestro Peter Stein. Abbiamo capito che non sarebbe venuto bene se la durata fosse stata di poche ore, poiché la storia richiedeva più tempo per essere trattata in tutta la sua completezza. Abbiamo quindi scelto di fare uno spettacolo di dodici ore, con più di ventotto attori in scena. È stato un esperimento enorme e ci ha fatto capire molte cose. Infatti, si dice spesso che oggi le persone non riescono a mantenere a lungo l’attenzione, invece il pubblico che aveva assistito allo spettacolo era soddisfatto, non mostrava segnali di noia.
Infatti nel corso del 1800, molti autori si lamentavano del fatto che gli spettacoli dovessero durare poche ore, ma loro scrivevano comunque opere molto lunghe con la consapevolezza che non sarebbero mai state rappresentate. Quindi questo è un pensiero ancora significativo? Sì, ancora dovremmo fare rappresentazioni senza porci il problema della troppa durata. Ovviamente questo non è possibile con tutte le opere, con “I demoni” si può fare proprio per la vastità di temi trattati all’interno del romanzo. È stata una sfida, ma l’abbiamo vinta. Con questo spettacolo siamo andati in giro per l’Europa e abbiamo dimostrato che vedere a teatro un’opera di questa portata ci fa sentire vivi. Non dimenticherò mai quegli applausi, erano un vero e proprio abbraccio umano. Le persone erano veramente coinvolte proprio perché avevano vissuto un’esperienza di condivisione: avevano passato insieme l’intera giornata e si erano conosciute durante i pasti e le pause.
Un classico senza tempo a cui lei ha preso parte è “Casa di bambola” di Ibsen in cui viene presentata un’idea di casa legata alla reclusione femminile. Oggi, periodo in cui la casa è tornata ad essere il luogo dove la maggior parte di noi è costretta a rimanere, si può pensare a questa come un luogo non solo di reclusione, ma anche di “ricreazione”? Sì, penso che questo tempo possa essere positivo perché ognuno si trova a dover fare i conti con se stesso e con i suoi affetti. Siamo costretti a una conoscenza profonda di noi stessi. Questa situazione è un’arma a doppio taglio: se da un lato ci porta a riflettere e a cercare di valorizzare quello che abbiamo, dall’altro ci possono essere situazioni infernali, dove avvengono reati di violenza e sopraffazione. Questo è molto pericoloso, giacché ora non si può scappare. Viviamo inoltre una limitazione della socialità che ora inizia a presentare il suo conto, dal momento che noi essere umani siamo relazione, siamo animali sociali, abbiamo bisogno di condividere, di compatire.
È venuta qualche anno fa al Teatro Corsini di Barberino con “E pensare che c’era prima il pensiero” su Gaber. Quali valori tramandati da questo autore sono importanti soprattutto ora? Gaber è stato un grandissimo protagonista del nostro tempo, forse nessuno come lui si è interrogato così tanto. Deve tornare centrale il ruolo del pensiero, che oggi sembra scomparso, forse perché siamo sopraffatti dalle informazioni, alcune delle quali sono anche fake news. La rete può arricchirci ma questo nostro rifarci sempre alla tecnologia è rischioso perché non ci fa scorgere i nostri limiti. Nessuno ha mai capito l’uomo come hanno fatto i Greci, che propugnavano il “conosci te stesso”, che invitava anche a conoscere i propri limiti. La cultura in questo momento è prigioniera della rete, il che è stato aggravato dalla pandemia. Noi artisti siamo fermi da marzo 2020 e la cosa peggiore è che non si alzano voci, sembra che in Italia a nessuno interessi questa situazione.
Un altro suo progetto è stato “I Teatri del sacro”. Come si può trovare un punto di incontro tra arte e fede senza che l’una scavalchi l’altra? Io sono una persona che mette sempre al centro la spiritualità ma non ho la fede. Questo spettacolo è stato importante, dava spunti molto forti dal punto di vista artistico e morale. Ho fatto “Passione” tratto da “Passio Letiatiae et Felicitatis” di Testori, assieme a mio fratello, Giovanni Crippa, con la regia di Daniela Nicosia. Il testo era provocatorio, io sono fiera e contenta di aver fatto qualcosa che è stata ben recepita dal pubblico, il quale è stato conquistato dalla serietà dell’opera.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 gennaio 2021