A porte chiuse – L’attore: il sincero maestro della menzogna
BORGO SAN LORENZO – L’attore è uno dei mestieri che maggiormente in questo periodo risente della crisi che stiamo attraversando, motivo per cui molti teatranti si sono appellati per richiedere dei sussidi o modalità diverse di fare il proprio lavoro. Sorge opportuno quindi chiedersi chi sia l’attore e come questo si concili con il personaggio che deve rappresentare, poiché, come diceva la Ubersfelt, egli è la carne dello spettacolo. La professoressa Maddalena Mazzocut-Mis, in un incontro alla Casa della Cultura di Milano nel febbraio del 2017, ha ripreso la definizione di Diderot, il quale affermava che ci fossero due tipi di attore: l’attore caldo, colui che si lascia coinvolgere dall’emotività e l’attore freddo, colui che resiste alle proprie emozioni e proprio per questo riesce a non crollare sulla scena e a fare diverse repliche. L’attore freddo è il più competente per Diderot, ma non può definirsi tale a tutto tondo, quindi viene inaugurato il cosiddetto “paradosso dell’attore”. La stessa Mazzocut-Mis ha raccontato di un incontro tenutosi fra i suoi studenti ed alcuni attori, ai quali venivano rivolte molte domande in merito alle osservazioni di Diderot, che spesso trovavano come unica risposta occhi sgranati e perplessi. Ad un certo punto, Valerio Binasco, preso dal calore disse “Io non ho mai pianto sinceramente la morte di mio padre, finché non ho interpretato il re Lear”. Qui si apre il vero paradosso: quanto l’attore sia sincero o quanto menta. Contemporaneamente, è il maestro della menzogna e gli si chiede di essere autentico. La regista Serena Sinigaglia, nella stessa conferenza alla Casa della Cultura, apprezzando le osservazioni di Binasco, pone però un’ulteriore questione, ovvero se il pubblico avesse recepito quel dolore. L’artista Louis Jouvet sosteneva che gli attori, nella comunicazione attoriale sono tre: al vertice c’è l’attore in carne ed ossa, ad un lato c’è il pubblico e il terzo punto è il personaggio. Secondo Jouvet, il grande rischio dell’attore consiste nel fatto che questo da un lato si può chiudere nel personaggio e non comunichi più e, dall’altro, che non vi entri a sufficienza e coinvolga il pubblico senza che questo coinvolgimento sia corrisposto da un’adeguata preparazione. Serve dunque il totale equilibrio dei tre punti. L’attore si trova in una dimensione di estremo legame con il personaggio, ma anche con la sua stessa carne e con il pubblico. Ettore Bassi rispose questo inverno ad una domanda abbastanza insidiosa postagli dal nostro giornale, ovvero se l’attore, poiché si porta sempre dietro una parte di sé, possa essere colui che meno degli altri comprende il suo personaggio. Disse che il teatrante si mette a completo servizio del personaggio, andando anche a ripescare nella sua stessa interiorità quelle emozioni che poi diventano quelle della persona interpretata. In linea con Binasco, Bassi concluse dicendo <Alla fine, io non so se conosco bene il mio personaggio, ma sono certo del fatto che, dopo essermi immedesimato in lui, io conosco di più me stesso>, osservando che non solo il personaggio viene costruito e scoperto dall’attore, ma anche viceversa. Persino in questo caso, viene riproposta l’idea che gli attori abbiano una sensibilità analogica e quindi si servano di essa per risvegliare certi sentimenti per poi proiettarli in colui che vanno a rappresentare, cercando trasmetterle agli spettatori. Dunque, l’attore può essere inteso come dotato di un tipo intelligenza, diversa da quella degli intellettuali, che non lo incatena ai dubbi e ai pensieri, ma è un senso che l’artista può comprendere solo attraverso la sperimentazione: il suo fare e riprovare. È dunque questo tipo di intelligenza che gli fa cercare risposte, è quella che, dice Mazzocut-Mis, nel 1700 avrebbero chiamato “l’intelligenza del cuore”.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 13 maggio 2020
Eccellente articolo.
Complimenti.
Giovanni