A porte chiuse – Il Teatro specchio della società o viceversa? Il Coronavirus con gli occhi di Ibsen
BORGO SAN LORENZO – In queste ore difficili, il panico è spesso diventato un compagno comune, rispetto al quale dobbiamo però prendere le distanze, affinché la razionalità ci faccia da guida e abbia il sopravvento sulle emozioni. Tantissimi sono i riferimenti letterari che ultimamente ci hanno colorato le nostre giornate: Manzoni non era mai stato così popolare dai tempi dell’Unificazione italiana e Gabriel Garcia Marquez ha un numero di citazioni sui social da far invidia ai Ferragnez. Anche il mondo teatrale ci viene incontro con il famoso scrittore norvegese Henrik Ibsen. Nell’opera “Un nemico del popolo”, pur delineando una situazione diversa da quella che si è verificata ora, l’autore ci offre un’analisi della mentalità di fronte ad una vicenda drammatica che ricalca perfettamente quello che stiamo vivendo. L’opera narra di un medico che si rende conto che le acque della stazione termale della sua città sono contaminate, chiedendo così provvedimenti immediati e incontrando il comune malcontento. Ovviamente, questo non riprende la situazione che viviamo ora: si è notato un comune andare incontro alle richieste dei medici e un ricorso a misure di emergenza tanto che l’Oms si è complimentata con le autorità italiane. Vi sono però nel testo di Ibsen una serie di richiami al senso comune. “Dovevano farlo prima!”, “Così non fa quando c’è un virus da fermare!”, “Una mascherina non serve”. Queste sono fra le più comuni affermazioni che si possono incontrare nelle videochiamate o nei messaggi, che fanno tutte capo ad un volerne sapere più delle autorità competenti, come nel caso del dottor Stockmann di Ibsen. “Proprio a noi doveva capitare?” si sente dire, come se la gravità diminuisse se la cosiddetta linea di fuoco non fosse in Italia, proprio come dicono i compaesani di Stockmann adducendo come pretesto che un posto salubre e bello come quello in cui vivono non possa divenire il centro di un’epidemia. Il “nemico del popolo” viene definito il dottore: anche noi cerchiamo spesso di dare la colpa a qualcuno che sia un essere concreto e non al famoso “nemico invisibile”, perché se non lo vedo non posso rifarmela con lui, non posso saperne più di un virus, non posso insegnargli cosa deve fare, dove deve andare, quali regole seguire. Non si accetta la fatalità, perché l’essere impotenti ci fa paura. Forse però non è contestando che la paura diminuisce, ma fidandoci di chi ne sa più di noi: la fiducia è un atteggiamento che va controcorrente allo stile di vita quotidiano, ma questa volta forse dobbiamo avere il coraggio di fidarci. Anche nell’opera teatrale, il medico si batte per gli altri, dicendo che deve fare il suo dovere verso il pubblico, verso la società, insegnando così ai suoi figli il coraggio di essere liberi. Quest’oggi in molti parlano dei medici come “eroi dal camice bianco”, perché sono gli unici che possono contro questa malattia, che può richiedere loro il sacrificio più alto: la vita. La figlia di Stockmann, Petra, quando il padre decide di andare avanti ad ogni costo, dice “Il babbo è un uomo, non cederà”. Fino ad oggi, sono 63 i medici caduti sul campo di battaglia, ognuno di loro ha sicuramente dei familiari che potranno dire che la madre, il padre, la figlia, il figlio, la sorella, il fratello “erano uomini e donne. E non hanno ceduto”. Hanno fatto il loro dovere, ma è un dovere che ha chiesto loro tutto e il grido dei loro familiari, che riprende quello dei figli di Stockmann, deve essere un grido di tutti, perché è ricchezza di tutti noi.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 31 marzo 2020
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