A PORTE CHIUSE – Giorgio Cantarini “Il teatro fa bene a tutti”

Foto di Riccardo Riande
BORGO SAN LORENZO – L’attore Giorgio Cantarini, che tutti ricorderanno bambino nel film “La vita è bella”, ci dà una visione particolare del lavoro dell’attore. In quest’intervista, Cantarini evidenzia tratti caratteristici del mondo dello spettacolo italiano, confrontandoli anche con la sua esperienza negli USA. Inoltre, dal momento che anche qui nel Mugello molti dei più giovani vorrebbero intraprendere tale strada, rilascia un’importante riflessione sugli attori bambini: è positivo entrare in questo settore per trovare nuovi metodi espressivi, ma è importante non perdere l’ingenuità tipica dei piccoli. Un messaggio che tutti dovremmo sempre tenere a mente.
Uno dei tuoi primi impegni nel mondo dello spettacolo è l’interpretazione del piccolo Giosuè nel film “La vita è bella”. L’attore di per sé ha a che fare con quella che Baudelaire chiamava “la più scientifica delle facoltà”, ovvero l’immaginazione. Tuttavia questo è un caso particolare, perché hai dovuto immaginare di essere colui che, a sua volta, immaginava, poiché il bambino era spinto a credere che quell’inferno fosse un gioco. Come è avvenuta questa tua immedesimazione? In questo caso, non posso neanche parlare propriamente di immedesimazione, poiché non avevo studiato niente, è venuto tutto in modo molto naturale, come accade spesso con i bambini. Non sono stato del tempo a studiare il copione, anche perché avevo cinque anni e non sapevo neanche leggere, erano i miei genitori a farmi imparare le battute. Spesso, prima di interpretare un personaggio, si fa l’analisi del testo o si sperimenta il metodo della sostituzione: si pensa a tracce del proprio vissuto che possono averci fatto provare le stesse emozioni del personaggio. In questo caso, chiaramente, non è stato possibile. Per me è stato come un gioco, ma, accanto alla componente giocosa, è spiccata la consapevolezza che stavamo facendo qualcosa di serio. Mi stavo rendendo conto pian piano che qualcosa di particolarmente brutto era accaduto. Quindi, un giorno chiesi a mia madre “Pensi che sia possibile, che tanti anni fa ci sia stato un bambino, di nome Giosuè, piccolo e magrolino come me, che sia vissuto in questi brutti posti?”. Lei si emozionò molto e mi rispose “Sì, forse è qualcosa di già accaduto”. Questo è stato il mio solo approccio alla Storia, per il resto ho interpretato il personaggio in maniera abbastanza inconsapevole e spontanea e forse questo è il motivo per cui è piaciuto così tanto.
Questo film è stato da molti imputato di irrealismo, eppure ci sono state realtà verosimili a questa. Mi riferisco, ad esempio, alla poetessa Ilse Weber che, condannata alle camere a gas, prese per mano tutti i bambini invitandoli a cantare sia per tranquillizzarli sia affinché il gas raggiungesse le loro gole più velocemente e questi morissero senza provar troppo dolore. Cosa pensi di questo aspetto? Certamente “La vita è bella” ha per oggetto un argomento delicato, proprio per la bruttezza del fatto storico che va a trattare, ma resta comunque una favola. Il passaggio dal primo al secondo tempo è molto forte, perché si passa da una storia romantica alla realtà drammatica del lager. Molti criticano il fatto che alla fine arrivino i carrarmati americani, poiché il campo di Auschwitz fu liberato dai Russi, ma nessuno ha mai detto che sia ambientato ad Auschwitz. Benigni stesso precisa che si tratta di un luogo del terrore in generale, non ci sono riferimenti specifici, il che giustifica la mancanza di attinenza alla Storia che viene rintracciata in alcuni casi. L’intento di questo film sta proprio nel messaggio di amore che viene tramandato, non vuole essere una testimonianza storica alla Schindler’s List.
Ora sei anche attore di teatro e hai recitato anche negli USA. Ci sono differenze fra il modo di approcciarsi al teatro in Italia rispetto all’America? Effettivamente sì. In Italia si sta molto attenti al testo, lo si vuole sviscerare, si indaga sul significato che esso vuole trasmettere. In America lavorano molto più sulle emozioni: ci si concentra meno sul testo e più sulla componente emotiva. Questo influisce anche sul pubblico. Gli spettatori statunitensi sono abituati ad andare a teatro per emozionarsi, per commuoversi. Lo spettacolo che abbiamo fatto noi è stato molto apprezzato negli Stati Uniti, mentre le uniche critiche sono venute dall’Italia, proprio perché qua abbiamo una concezione di teatro un po’ diversa.
Hai interpretato anche Gesù nello spettacolo “La Passione”. Da quale punto di vista avete affrontato questa storia che è quella che più di tutte, per credenti come per non credenti, ha sconvolto l’umanità? È stato un esperimento particolare. Si trattava di uno spettacolo molto simile ad una Via Crucis arricchita da dialoghi teatrali. C’erano tante parti di silenzio, erano presenti camminate scenografiche. Per recitare in quest’opera, ho pensato alla sofferenza enorme che deve aver provato Gesù durante quelle ore, comparata alla forza e alla bellezza del messaggio cristiano, che Lui sapeva essere il più potente di tutti.
Un altro spettacolo in cui hai recitato è “La donna bambina”, che tratta anche del significato delle fiabe, spesso considerati racconti banali, ma che in realtà celano messaggi importanti… “La donna bambina” è uno spettacolo che ho fatto mentre studiavo al Centro Sperimentale. Ha recitato tutta la mia classe, mentre la protagonista era interpretata da un’attrice esterna. Ognuno di noi aveva un personaggio particolarmente esilarante. Io dovevo interpretare un corvo e recitavo sempre in coppia con un compagno che interpretava un asino: eravamo un alter ego del gatto e la volpe, il nostro scopo era far cedere la protagonista, ingannandola un po’ come avviene in Pinocchio. Ci siamo concentrati sulle voci e sui movimenti, è stato un esperimento molto divertente, in cui era centrale l’utilizzo del corpo.
Hai iniziato a recitare che eri giovanissimo. Qui da noi, in Mugello, ci sono molti bambini che fanno corsi di teatro Junior, anche se spesso c’è un po’ di ritrosia ad inserirli in tale ambito. Cosa pensi di questo? Parlare degli attori bambini è complicato. Ovviamente il teatro fa bene a tutti, ai piccoli specialmente, perché libera dalla timidezza e trasmette grandi valori: ad esempio, molti giochi teatrali si basano sulla fiducia rispetto al gruppo. Problematico risulta quando si entra da bambini nel mondo professionale, lo dimostra il fatto che molti di essi sono finiti male. A questo bisogna stare molto attenti, è determinante il ruolo di chi dirige e il comportamento della famiglia. È una cosa particolare perché il bambino viene catapultato in un mondo in cui ci sono principalmente solo adulti, molti dei quali si complimentano con lui che non capisce bene il motivo di tutto quel successo. L’ambiente del set è più pericoloso rispetto a quello del teatro, poiché l’attore si sente ancora di più sotto i riflettori. Il bambino si trova improvvisamente ricoperto da mille attenzioni e questo gli può portare degli scompensi poiché lo distacca molto dalla realtà. La mia famiglia mi ha aiutato a tenere i piedi per terra e a mantenere quell’ingenuità che hanno i più piccoli. Non mi sono sentito arrivato, anche perché ho continuato a condurre una vita normale, ad andare a scuola, a giocare a pallone, a stare con gli amici. Questo dipende molto dal mio background: vengo da una famiglia semplice; i miei genitori hanno pensato prima a me che al successo, il che mi ha permesso di scegliere da solo la mia strada.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 17 gennaio 2021