A PORTE CHIUSE – Enrico Oetiker “Arte è qualunque cosa fatta con poesia”
BORGO SAN LORENZO – Nel momento in cui le porte dei teatri stanno iniziando a riaprire, sentiamo la voce di Enrico Oetiker, attore teatrale e cinematografico che, dopo aver frequentato l’Accademia Corrado Pani, si è impegnato in teatro con “Il sogno di una vita”, al cinema con film quali “Se Dio vuole”, “Classe Z” e “In search of Fellini” e sul piccolo schermo in varie serie televisive. In questa intervista, riflette sulla necessità di mantenere vivi certi valori nell’arte della recitazione, quali il trattare temi fondamentali, il non avere tabù, il tutelare l’uso dell’ironia.
Tu in teatro hai recitato in “Il sogno di una vita”, storia di quattro ragazzi cresciuti insieme che si rincontrano per una triste circostanza: la malattia di uno di loro. Questo confrontarsi con la morte dà loro un impulso nuovo, come se la certezza della morte restituisse il senso della vita, come diceva Heidegger definendola un “essere per la morte”. Questa idea può assumere maggiore significato proprio in questo momento di pandemia in cui ci siamo sentiti spesso a contatto con l’incertezza? Il teatro è stato il mio primo amore, il primo approccio a questo mondo. Penso che da ragazzi sia impossibile non rimanere colpiti dall’arte teatrale. “Sogno di una vita” è andato in scena al Ghione a Roma, sono stato molto felice di averlo fatto, poiché tratta i temi più viscerali che l’Arte può affrontare, ovverosia l’Amore e la Morte. Il primo atto vede proprio come protagonista il tema della morte, poiché si ambienta in un orfanotrofio dove, durante una notte, muore un ragazzo per overdose e i suoi compagni devono confrontarsi con questo evento. Poi si vedevano sullo sfondo le silhouette dei ragazzi più adulti che hanno trascorso parte della loro esistenza e si rincontrano nel momento della malattia di uno di loro, il che li fa riflettere sull’importanza della vita. Penso proprio che sia necessario interrogarsi sulla morte, soprattutto in un momento come questo in cui è mercificata, talvolta per sensibilizzare o addirittura per impaurire e far leva sui timori della gente. In Italia soprattutto, parlare della fine della vita è visto come un tabù, si parla dei morti, ma poco della morte. Invece, per dirla con Heidegger, è proprio questo momento estremo che ci fa conoscere ciò che conta davvero. La morte fa parte della vita, il giorno in cui nasciamo iniziamo a morire e il teatro, come il cinema, devono porre l’uomo a contatto con queste situazioni, farlo interrogare: bisogna puntare l’accento sulla paura dell’ignoto, anziché rassicurare. Sarebbe interessante riproporre ora questo spettacolo, per diffondere maggiormente il messaggio.
Un altro tuo lavoro è “Se Dio vuole”, una commedia che però affronta un tema complesso: quello di un ragazzo che ha come mentore un prete e, per questo, decide di intraprendere la strada del sacerdozio. Questo film è significativo sia per il rapporto fra il figlio e i genitori sia per il fatto che tanto il padre quanto il figlio rimangono colpiti dal carisma del sacerdote. Questo può farci riflettere sul bisogno di avere figure che ci incitino a ragionare seriamente e non, invece, ad andare dietro a ciò che appare come più prestigioso o comodo? Assolutamente sì, io penso che ogni persona abbia bisogno di un mentore. Secondo me, bisogna scindere l’educazione dall’insegnamento. Il dovere di ciascuno è educare, dunque in queste figure vanno ricercati gli educatori, più che gli insegnanti. Queste figure sbagliano se vogliano inculcare certe idee nell’altro; si dovrebbe bensì spingerlo a tirare fuori il meglio di sé, dando quindi alla persona la possibilità di esprimersi. Spesso i genitori proiettano sui figli i loro fallimenti e vogliono spingerli a fare quello che loro non sono stati in grado di fare. Penso che questo sia un atteggiamento sbagliato, si deve partire dall’ascolto dell’altro, dal capire cosa vuole fare della sua vita. È responsabilità del mentore assicurarsi che il fiore possa sbocciare spontaneamente.
Parlando di questo film, possiamo capire che la commedia ha un valore altissimo, perché veicola messaggi importanti. Come si colloca il valore dell’ironia nel periodo del “politicamente corretto”? In questo periodo si parla molto di ciò che è “politicamente corretto” e ne sono un po’ sconcertato. Credo che il comico vada al di là della morale, anche in questo settore ci sono molti tabù. Non dobbiamo però dimenticarci l’Arte della risata. Da Carmelo Bene a Eduardo, la tragedia viene trasformata in commedia e viceversa, il che produce un forte impatto, una sorta di schiaffo in faccia allo spettatore. Bisogna fare in modo che il valore della commedia non venga svilito, penso che si possa raccontare tutto e ridere di tutto. Ovviamente bisogna anche fare in modo che certe categorie, come le minoranze o persone che a lungo tempo sono state discriminate, non si sentano offese, ma se per far questo viene meno la libertà del comico di esprimersi, il prezzo da pagare è alto.
Nel tuo percorso di apprendimento dell’arte della recitazione, qual è stato il momento più difficile? Penso che quasi tutti i momenti siano stati difficili. Quello che si vede quando l’attore va in scena è la punta di un iceberg, alla cui base ci sono tutti i fallimenti. Il tempo passato all’Accademia è scandito dagli errori che facciamo. Forse a un certo punto trovi la chiave, il motivo per cui hai sbagliato in quel determinato momento. È un lavoro difficile, ma penso che valga la pena di prendere tutte queste capocciate.
Un altro film che ti ha visto fra i protagonisti è “Classe Z”, in cui dei ragazzi un po’ scapestrati devono affrontare l’esame di maturità, che tutti ricordiamo. Questo è il secondo anno in cui non ci saranno scritti alla maturità, ciononostante resta un momento che ha segnato la vita di tutti, tanto che il cinema italiano si è più volte basato su questo. Non pensi che togliere a questi ragazzi gli scritti sia privarli di un’altra esperienza, ovviamente difficoltosa, ma che ciò aumenti anche inconsapevolmente il disagio di questi anni? Se devo essere sincero, non penso che i ragazzi siano dispiaciuti di questa situazione: se penso a me maggiorenne, che con la scuola ho avuto un rapporto di amore e odio, mi immagino che sarei stato contento di un esame di maturità più leggero. Anche se sarei stato dispiaciuto di non poter fare il tema, perché a me piaceva molto scrivere. Questa è una ricchezza che è mancata ai ragazzi negli ultimi anni, perché scrivere è importante, ti insegna a comprendere quello che leggi, a ragionare. Se guardiamo queste decisioni dal punto di vista generale, è triste constatare un esame senza scritti perché indica sempre meno attenzione alle richieste, anche se penso che il dispiacere sia più nostro che dei maturandi.
Hai anche recitato in “In Search of Fellini”, un film che ci lascia intendere che il rapporto con l’Arte spesso ci permette più di ogni altra cosa di conoscere noi stessi. Tu cosa pensi di questo? Sono d’accordo: l’Arte è uno specchio della nostra interiorità, un perenne dialogo con noi stessi. Fruire dell’Arte, come fare Arte, quando questa è eseguita con profondità, permette di guardarsi dentro. Prendere parte a questo film è stata un’esperienza meravigliosa. Fellini è stato un grande regista come un grande uomo, ci ha insegnato ad amare l’Arte, a comprenderla a tutto tondo, mentre oggi si tende ad inscatolarla in categorie. Arte è qualunque cosa fatta con poesia, anche alcuni momenti della vita quotidiana sono artistici. Ed è necessaria. È versa la frase di Oscar Wilde “nulla è più necessario del superfluo”.
Se dovessi dirigere uno spettacolo classico, quale porteresti da noi nel Mugello, dunque in una realtà diversa dall’ambiente cittadino? Porterei “La bisbetica domata”, con Shakespeare si va sempre sul sicuro. È un’opera delle sue opere più frizzantine. Shakespeare è universale, può essere compreso e amato da tutti.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 maggio 2021