RECENSIONE – “La camera azzurra”: ma cosa c’è nel guazzabuglio del cuore umano?
Tu…hai paura di esistere più dovuto
VICCHIO – La stagione del Teatro Giotto di Vicchio è partita venerdì 22 novembre con “La camera azzurra”, opera diretta da Serena Sinigaglia. Un esordio all’insegna del noir, o meglio dell’azzurro, inteso come il termine inglese “blue”, ovvero malinconico, triste. Ma quella a cui abbiamo assistito è un tristezza dinamica, in cui non ci si arrende alla costrizione del monotono. L’inizio, leggermente sottotono, ha messo in rilievo la passione travolgente dei due amanti, calcando sull’idea di proibito, di una trasgressione forte al sacro vincolo del matrimonio. Il ritmo è stato poi ripreso appieno, attraverso continui flashback, per cui dalla situazione di un processo finale, in cui entrambi sono accusati da un giudice (Mattia Fabris) di aver ucciso i rispettivi coniugi, si tornava al passato, ai momenti dei loro incontri segreti. La camera azzurra è l’opposto al loro sentimento privo di confini, come se si volesse concretizzare l’astratto puro e inafferrabile. I due, interpretati da Fabio Troiano e Irene Ferri, restano estranei a quel contesto casalingo, anche quando lui deve recitare la parte del marito devoto. Il togliersi i vestiti nel momento dei loro abbracci non si limita ad essere sintomo dell’approssimarsi a vivere momenti di intimità, ma indica anche la rispettiva voglia di fuggire dal banale e dal mediocre per vivere qualcosa di vero. È un grande tentativo: quello di fuggire dalla quotidianità, ma anche nel loro caso, è uno sforzo che va a vuoto: sono perseguitati dalla luce blu che subisce diverse gradazioni. Da una scena pervasa dall’azzurro si passa ad una luce verde acqua, fino ad un celeste polvere. Le luci sembrano una malattia di cui i personaggi sono appestati, un morbo da cui non si può guarire, si possono solo vivere momenti in cui il dolore viene alleviato. In questa atmosfera, che non riesce mai a renderli liberi, trova il suo spazio solo la moglie del protagonista, interpretata da Giulia Maulucci, che vuole preservare il suo ruolo, in modo fermo e irremovibile, perdonando sempre e pensando di vincere su una condizione di cui è, invece, vittima fin dall’inizio, ha infatti “paura di esistere più del dovuto”. Come ha detto la regista, si tratta di uno scandaglio dell’animo umano, nato dalla penna di Georges Simenon, uno dei massimi maestri del giallo, che qui ci regala un’anatomia perfetta dei nostri sentimenti.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 novembre 2019