INTERVISTA – Rita Pelusio “Comprendere la fragilità ci rende felici”
BORGO SAN LORENZO – L’attrice Rita Pelusio, che ha collaborato molte volte con il Teatro Corsini di Barberino, indica le scelte che ha fatto per interpretare le sue opere, specificando quali temi abbiano maggiore bisogno di essere affrontati nella situazione contemporanea. Pelusio lavora nell’ambito della satira sociale, un tema di enorme importanza in questo momento storico, che ci dimostra che non dobbiamo mai smettere di pensare al valore enorme e per niente scontato della libertà di pensiero, spesso messa in discussione perché “scomoda” o addirittura “pericolosa”.
Lei ha fatto una serie di spettacoli sui diritti delle donne e sulla disparità dei sessi, facendo dunque intendere l’importanza di tale argomento. Si può parlare di una sorta di glass ceiling anche in ambito artistico e dunque di ruoli preclusi alle donne? Sicuramente c’è questo problema anche nell’arte, ma, vista la vastità del campo in cui lavoro, bisogna stare attenti a non generalizzarlo. Nel mondo del comico questo è molto evidente, era frequente dire che le donne non facessero ridere. C’era una sorta di verità in questo, poiché i capi dei progetti erano tutti uomini, quindi l’opera seguiva il loro stile. Anche in Shakespeare la maggior parte dei personaggi sono maschili o pensati per essere interpretati da uomini. Nella Commedia dell’Arte i ruoli femminili sono pochi e stereotipati e, anche nel mondo dei clown, c’erano poche donne, soprattutto in Italia. Ultimamente le cose stanno cambiando, c’è più rispetto per le diversità di genere e dunque aumentano le possibilità.
Ha anche recitato in “Ferite a morte” di Serena Dandini, una sorta di Spoon River in cui le donne parlano di qualcosa che, da quanto è terribile, è quasi ineffabile. Come vi siete rapportate col dover dire ciò che, purtroppo, quasi mai viene detto poiché certi fatti non si riescono neppure a denunciare? Quanto peso ha avuto questo aspetto nella sua interpretazione? Quello è stato un progetto di testimonianza necessaria. È il lavoro più importante che ho fatto: abbiamo dato voce a donne veramente esistite. Abbiamo attinto dalla cronaca, infatti l’espressione molte volte detta “avevamo un mostro in casa” era proprio il titolo di un giornale. Mi sono sentita un tramite di queste donne, per questo, dal punto di vista recitativo, ho tolto tutte le velleità attoriali.
Al teatro Corsini di Barberino ha portato “Urlando Furiosa”, storia di un’anima arrabbiata che non vuole smetterla di gridare. Se lei ora potesse urlare, essendo certa che le sue grida avessero un effetto immediato, quali cose denuncerebbe? In questo momento vorrei gridare contro tutte le scelte scellerate della Regione Lombardia, che si era sempre considerata un’eccellenza. Poi urlerei contro tutti coloro che hanno messo il mondo dello spettacolo in ginocchio. Vorrei che questo mio urlo giungesse al ministro Franceschini e che lo portasse ad adottare un nuovo intervento.
Lei fa molta satira sociale. Spesso si considera la satira solo un modo per dare contro agli altri, dimenticandoci che il genere letterario della satira è molto antico. Quale potrebbe essere un modo per sottolineare oggi il valore artistico della satira? Mi trovo un po’ in difficoltà a rispondere a questa domanda proprio perché per me la satira non ha mai perso valore, però capisco che si sia perso il modo di comprenderla, proprio perché non è ben vista. Bisognerebbe quindi creare luoghi di satira, con giornali satirici, come era la rivista “Cuore”. Comunque ci sono molti giornalisti competenti in questo settore, come Luca Bottura. Io mi definisco un buffone, vestiamo i panni degli ultimi che guardano i fatti politici in un altro modo. Il nostro compito può essere definito quello di incoronare le bruttezze della realtà.
Ha portato in scena anche “L’esercito delle cose inutili”, in cui l’inutilità si scontra con il bisogno di essere felici. L’accettazione di noi stessi e dei nostri sentimenti può essere un passo avanti per essere felici, anche se spesso ci sentiamo inutili? Questo tema è legato proprio a quello che viene insegnato ai clown, cioè l’accettazione delle proprie fragilità. Comprendere le nostre debolezze e quelle degli altri ci rende felici, gli spettatori si riconoscono in questo atteggiamento. Bisognerebbe davvero chiederci “Ora cos’è utile?”, la risposta a questa domanda farebbe molto riflettere anche sulla chiusura dei teatri. Uno dei miei libri preferiti è, infatti, “L’utilità dell’inutile”, di Nuccio Ordine , che si interroga su questo concetto.
In teatro, qual è, secondo lei, l’azione più rivoluzionaria che potrebbe fare una donna oggi? Forse “non fare teatro in teatro”. Mi spiego meglio: dovremmo portare il nostro lavoro laddove è necessario. Bisognerebbe entrare in contatto con altre comunità, come le associazioni contro la violenza sulle donne o nelle case di accoglienza. Considero rivoluzionario fare le cose che servono, quelle che sono indispensabili alla comunità.
Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 19 novembre 2020